giovedì 4 luglio 2013

Pausa

Per il momento questo blog si ferma qui. Lo avevo aperto con il proposito di tenermi in allenamento, in attesa di riprendere in mano un lavoro più corposo che coltivo da tempo. Dopo più di un anno e oltre ottanta racconti, ora posso dedicarmi a quel libro che mi preme terminare prima dell'estate. La mia intenzione è di pubblicare mano a mano i capitoli su questo blog, non appena saranno ultimati. Grazie e a presto.

giovedì 27 giugno 2013

Quattro Haiku

No cocomero
solo compiti.
Brucia lo zampirone.

Fungo spaccato
lungo il sentiero.
E' ora di tornare.

Calzoni corti.
Ginocchia nella neve
camino vivo.

Grano sgarbato
attendi con affanno.
Piove, ma poco.

giovedì 20 giugno 2013

Ercolino

Dormi dormi dormi dormi dormi dormi dormi dormi dormi dormi dormi dormi dormi dormi dormi dormi dormi dormi dormi dormi dormi dormi dormi dormi dormi dormi dormidormi dormi dormi dormi dormi dormi dormi dormi dormi dormi dormi dormi dormidormi dormi dormi dormi dormi dormi dormi dormi dormi dormi dormi dormi dormidormi dormi dormi dormi dormi dormi dormi dormi dormi dormi dormi dormi dormidormi dormi dormi dormi dormi dormi dormi dormi dormi dormi dormi dormi dormidormi dormi dormi dormi dormi dormi dormi dormi dormi dormi dormi dormi dormidormi dormi dormi dormi dormi dormi dormi dormi dormi dormi dormi dormi dormidormi dormi dormi dormi dormi dormi dormi dormi dormi dormi dormi dormi dormidormi dormi dormi dormi dormi dormi dormi dormi dormi dormi dormi dormi dormidormi dormi dormi dormi dormi dormi dormi dormi dormi dormi dormi dormi dormidormi dormi dormi dormi dormi dormi dormi dormi dormi dormi dormi dormi dormidormi dormi dormi dormi dormi dormi dormi dormi dormi dormi dormi dormi dormidormi dormi dormi dormi dormi dormi dormi dormi dormi dormi dormi dormi dormidormi dormi dormi dormi dormi dormi dormi dormi dormi dormi dormi dormi dormi dormi...   

Dorme?

No

Dormi dormi dormi dormi dormi dormidormi dormi dormi dormi dormidormi dormi dormi dormi dormidormi dormi dormi dormi dormidormi dormi dormi dormi dormidormi dormi dormi dormi dormidormi dormi dormi dormi dormi...

giovedì 13 giugno 2013

Il fotografante

Sono un fotografo. O meglio lo ero. Ero un fotografante.
Mi è sempre piaciuta la fotografia, fin da quando c'erano i rullini. E allora da grande ho pensato di farne una professione. Andare ai grandi eventi politici, immortalare le star, mettermi la casacca arancione con scritto Press alle Olimpiadi. No, il reportage o gli scatti d'autore non sono mai stati il mio forte. Mi piaceva lavorare per la stampa, non tanto per conto mio. Quando sono in giro da solo o con la mia famiglia faccio qualche foto ma non impazzisco, non vado in Karzighistan o sui monti della Sencillas per trovare lo scatto da Pulitzer.
Dopo una decina d'anni però ho smesso. Ho smesso perché non riuscivo ad essere il migliore. Perché sì, ci sono i migliori anche nella fotografia da stampa, sportiva o di cronaca, anche lì si riconosce chi ha talento e chi no. E anche oggi che con le macchine digitali si possono fare centinaia di scatti e poi scegliere e fare mille ritocchi in post, nel giro si sa chi è davvero una spanna sopra. E io non lo ero. Ma se non avessi incontrato il migliore mi sarei anche accontentato di essere bravo, un bravo tra i bravi. Però c'era lui.
All'inizio lo ammiravo, ma senza invidie. Cercavo di non imitarlo, di mantenere uno stile e un'autonomia formale. Con il passare dei mesi e degli anni però mi accorsi che era divenuta un'ossessione. Allora iniziai a studiare le sue foto, tentati di capire cosa ci fosse di così diverso dalle mie. Inizia a stargli vicino. Quando lo incontravo a qualche evento (e con il tempo questo accadeva con più frequenza e quasi mai per caso) cercavo di mettermi al suo fianco o dietro di lui per vedere come si comportava. In realtà non pareva fare nulla di sconvolgente. Aveva molta dimestichezza con la macchina, ma del resto l'avevamo tutti. Sceglieva sempre ottime angolazioni, ma come molti. Aveva un bel arsenale di obiettivi, ma non poteva solo essere una questione di apparecchi. Una cosa diversa dagli altri, me compreso, però la faceva. A differenza di noi portava a casa pochissimi scatti. Pochi in confronto ai nostri. Se per dire io ne facevo mille, lui non andava oltre i trecento. Che sono comunque tanti ma in proporzione ricordano l'era dell'analogico, quando dovevi pensare bene a quando scattare perché i rulli erano limitati e la stampa ancora abbastanza costosa.
Ecco lui aspettava un po' di più. Mentre noi eravamo già nascosti dagli obiettivi, lui si stava ancora guardando attorno in attesa del momento giusto. Se qualcuno avesse fatto una foto alla massa dei fotografi, in più di una circostanza avrebbe visto decine di macchine scure coprire i volti guerci ed un unico viso scoperto e pensante.
Iniziai anche io a fare meno foto. Ad osservare più a lungo la scena. Anche quando non c'era lui provavo a prendermi più tempo, ma non ero comunque soddisfatto. Arrivai persino ad ignorare la scena e a guardare lui per fare quello che faceva lui. Stavo pronto con la macchina, come un cecchino, e scattavo quando scattava lui. Ma non serviva a niente.
Ero un fotografante, uno bravino, ma nulla più.

giovedì 6 giugno 2013

Dragan

Esco dal gelo sintetico dell'ufficio, alzo lo sguardo e vedo, in fondo al lungo corridoio foderato di moqutte grigia, Dragan che mi viene incontro sorridendo. E' un omone alto e con spalle larghe, la camminata ampia. Ha un ghigno divertito e con le braccia allargate e le mani chiuse mima, tirandole su e giù, due valigie pesanti. Ci metto un attimo a comprendere poi rido anch'io. Mi sta ricordando che l'Italia ha perso dalla Serbia ai mondiali di pallavolo e che quindi andiamo a casa.
La prima volta che sono andato al piano di sopra per portare dei documenti a Dragan lui mi ha fatto un grande sorriso, mi ha chiesto come mi chiamassi e in quale ufficio fossi. Io gli ho risposto poi ho chiesto il suo nome e lui mi ha detto che era sposato e aveva due figli.
Il giorno dopo decido di iniziare io e provo con lo sport. Gli chiedo se è Serbo (perché l'Italia aveva giocato il giorno prima contro la Serbia a calcio) e lui annuisce facendosi serio. In quel momento non realizzai perché lo avesse fatto, iniziai a parlare della partita e lui si distese nuovamente. Ora posso dire che quella fu l'unica volta in cui lo vidi accigliato. Più tardi capii che alla mia domanda probabilmente avevo innescato una difesa contro i brutti ricordi del periodo della guerra dalle sue parti. Quella domanda a bruciapelo "Sei Serbo?", per me innocua, forse gli era stata fatta tante volte, prima che venisse in Italia, e dubito fosse stata così innocua. Per un attimo immagino la sua storia, lo vedo scappare con la sua ragazza attraverso chissà quali confini e arrivare in Italia, lasciandosi dietro amici e famiglia. Ma non saprò mai se è andata così.
Dragan di quel periodo non vuol parlare. L'ho saputo da altri colleghi così ho sempre evitato di fare domande, anche se mi sarebbe piaciuto sentire da lui come sono andate veramente le cose. Riesco solo a sapere che viene da Negotin, una cittadina vicino al confine con Romania e Bulgaria. Ogni estate torna là con la moglie, anche lei serba, e i figli, nati e cresciuti in Italia. La figlia di tredici anni una volta lo è venuto a prendere in ufficio per accompagnarlo in Comune. Dragan doveva portare dei moduli e dei documenti e aveva bisogno di lei per farsi capire dagli impiegati.
Ah, già. Dragan e sua moglie sono sordomuti.


giovedì 30 maggio 2013

Rovescio

Spensi la luce e mi alzai da letto con energia. Mi tolsi gli abiti e li riposi con cura sulla sedia di legno. Indossai il pigiama, mi feci una doccia e cenai, con un piatto di pasta al pomodoro e del pinzimonio. Uscii di casa che il sole era alto e caldo, presi la bici e in meno di dieci minuti arrivai al cinema. Il film non mi dispiacque e quindi, una volta uscito, decisi di pagare il biglietto. Salutai il cassiere, ripresi la bici e tornai a casa per la merenda.
Poco prima di mezzogiorno andai in studio per mandare alcune email delle quali avevo già ricevuto risposta e richiamare qualcuno che non conoscevo. Sudai molto, quindi decisi di andare al parco a correre un po' per rinfrescarmi. Dopo circa tre quarti d'ora ero asciutto e riposato e i muscoli delle gambe non mi facevano più male.
Tornai a casa, diedi il buongiorno a mia moglie, mi tolsi il pigiama e rimisi i jeans con la camicia. Feci colazione con un'abbondante tazza di latte e avena e un cucchiaino di miele. Bello riposato, anche se con un po' di mal di schiena, tornai a letto mentre il gallo cantava.

giovedì 23 maggio 2013

Scenografo
Etimologia della parola

Grande amico dello Storione, lo Scenografo venne avvistato per la prima volta in Mesopotamia, alcuni millenni prima di Cristo. Già allora si distingueva per la sua tendenza ad ingigantire i momenti di difficoltà o di tristezza o di dolore, mettendo in atto delle vere e proprie "scene" ai limiti dell'inverosimile. Come lo Storione vive isolato, per quanto abbia necessità di frequenti contatti con gli altri membri della società per poter dare frutto alle ore e ore di prove effettuate in solitario. Tra i grandi della storia ricordiamo: Sceno l'Africano, Piotr Ilic Scenosky e Diego Ignacio da Silva Sceneiro.

giovedì 16 maggio 2013


Diablo


Mettendo a posto un po' di cianfrusaglia ammassata in uno scatolone ancora dal trasloco ho ritrovato un pezzo di canna di bambù con attaccato un bigliettino. Erano anni che non mi capitava di tenere in mano quell'oggetto ma di certo non avevo dimenticato cosa fosse.
Francesco era magro e aveva gli occhi chiari, i capelli sparati e delle movenze da giocoliere, da funambolo. Aveva sempre qualcosa in mano con cui giocherellare e per ogni argomento sapeva una storia strana o un mistero da raccontare.
Lo conoscemmo un'estate di tredici anni fa quando decise di venire con noi in route perché il suo clan quell'anno non sarebbe partito dato che, a parte lui, lavoravano tutti in riviera. Aveva uno zaino abbastanza piccolo ma carico di giochi. Frisbie, palline, clavette e diablo. Ogni volta che ci fermavamo tirava fuori le stecche e iniziava a giocare, lanciando il diablo in aria, rischiando più volte di perderlo in qualche crepaccio. Se ti vedeva in vena ti coinvolgeva in qualche piccola acrobazia, facendoti fare capriole o chiedendoti di sorreggerlo per una torre umana. Era il più giovane di noi e decisamente fuori contesto, ma  alla fine della spedizione ci eravamo affezionati ed avevamo imparato a comprendere il suo modo di fare, a volte apparentemente invasivo o fuori luogo, ma sempre sincero e vitale.
Pochi mesi dopo una macchina contromano centrò in pieno il risciò sul quale stava facendo un giro con altri ragazzi.
Andammo al funerale tutti in uniforme, per salutare un amico, anche se lo avevamo conosciuto da poco. La chiesa era strapiena. A metà della cerimonia la piazza venne invasa da un corteo rumoroso di saltimbanchi e giocolieri, che battevano sui tamburi e cantavano e lanciavano piccoli razzi, gonfiavano palloncini e si esibivano in numeri da circo. In chiesa era quasi impossibile comprendere cosa stesse dicendo il prete e la gente era infastidita.
Poi prese la parola il frate che ci aveva accompagnato in route, e che da alcuni anni assisteva il nostro clan, e disse una cosa che in realtà molti di noi pensavano ma avevano timore ad ammettere.
Non dovevamo essere arrabbiati per la festa che rimbombava da fuori. Non era una mancanza di rispetto ma un segnale che la vita proseguiva. In realtà là fuori c'era Francesco che con il diablo e i trampoli ci invitava ad uscire, a non smettere mai di giocare e di farsi domande, meglio se insolite.
Poco prima avevo preso la parola io, a nome del clan, e avevo pensato la stessa cosa ma avevo avuto timore a dirla e alla fine avevo tirato fuori le solite cose da funerale. Mi ripromisi di non perdere mai più l'occasione per dire quello che pensavo.
Mossi dalle parole del frate, lentamente la gente uscì dalla chiesa e si fece prendere dalla festa. Iniziammo a cantare e a ballare mentre la cerimonia volgeva al termine. Francesco sarebbe stato contento.
No, in realtà questo non successe ma l'atmosfera mutò all'improvviso. La cerimonia si concluse senza patemi e al termine ad ognuno venne consegnato come ricordo il pezzo di bambù con il bigliettino che riportava una preghiera. Rispetto a quasi tutte le altre cose trovate nello scatolone credo che questa la terrò, come monito e talismano.

giovedì 9 maggio 2013


Dreamcatcher

Seconda Parte

Giunsero dapprima uno alla volta poi a gruppi di due o tre. Alcuni avevano lunghe fauci, altri occhi enormi, altri ancora artigli o zampe minacciose. Emettevano versi raccapriccianti, anche se sussurrati, ed avanzavano lenti verso il centro della stanza. Quando ebbero formato una massa consistente Dillon iniziò a cantilenare. Dapprima sussurrava singole parole, poi frasi più articolate. Le espressioni del volto concentrato accompagnavano l'evolversi della melodia. Ad un tratto le parole iniziarono a prendere colore, legandosi in un nastro violaceo, e si innalzarono verso l'alto assumendo lentamente forma. Una lunga tunica apparve in mezzo alla stanza. Le sue pieghe evidenziavano un torace gonfio e ansimante. Poi presero corpo le braccia e le mani artigliate e infine il capo sormontato da lunghe corna. Sul volto spuntarono due intensi occhi neri e una lunga bocca aperta fino alla pancia, costellata di sottili denti acuminati. Il Guardiano doveva essere spaventoso quanto gli Incubi, se possibile più spaventoso, affinché questi fossero intimoriti a loro volta e scappassero o si lasciassero catturare.
Il Guardiano allargò le braccia a protezione e nella mano destra comparve uno scettro sinuoso, simile ad una lunga liana, che si allungava sino alle mani di Dillon. La sfera che reggeva si staccò dai palmi e si mise a fluttuare a mezz'aria, oscillando appena. Alla vista dello scettro gli Incubi emisero un unico verso stridulo di rabbia e si compattarono. Sotto le coperte Sara tremò per un istante.
Altri mostri giunsero alle loro spalle, premendo per trovare posto. Ragni, serpenti, goblin e personaggi malvagi dei racconti apparivano sempre più rapidamente, famelici e minacciosi. Il Guardiano aprì ancora di più le fauci e distese gli artigli. Gli Incubi non sembravano darsi per vinti, anzi, parevano ancora più intenzionati a sfidarlo. Un'ombra densa e appiccicosa invase la stanza, chiudendosi come una grande palpebra su di loro.
Dillon aprì per un istante gli occhi e si rese conto che la situazione era più complicata del solito. Era chiaro che la magia non bastava, c'era bisogno di un bel sogno per risolvere la situazione. Ma con tutti quei mostri e quell'oscurità per Sara non sarebbe stato facile. 
Senza bisogno di dire nulla Dillon guardò Julie e la gatta iniziò a miagolare in una maniera quasi umana, che è molto raro sentire di giorno.
Pochi istanti dopo dalla finestra aperta giunse una Fata del Crepuscolo, poi una seconda e infine un piccolo stormo. Le minute creature alate e luminose circondarono Dillon e Sara andando a creare una barriera di luce contro l'ombra che avanzava incessantemente. Questo avrebbe permesso alla bimba di calmarsi e forse di fare un bel sogno.
Nella speranza che ciò avvenisse in fretta Dillon iniziò a salmodiare più forte e il Guardiano crebbe ancora in dimensione. Gli Incubi premevano, erano giunti a sfiorarlo, lo graffiavano con gli artigli e le chele vibranti. Dillon sentiva le mani calde e puntò i piedi per terra per concentrarsi maggiormente. Julie osservava con apprensione, senza togliere gli occhi dai mostri, consapevole che non poteva fare altro.
Il primo Incubo riuscì ad afferrare il manto del Guardiano e lo azzannò con foga. Il mantello si lacerò e il mostro tornò nell'ammasso informe per gustarselo. Altri Incubi gli furono addosso per averne un pezzo da assaggiare. Dillon iniziava ad essere stanco, ad avere la gola secca e le mani al limite dell'ustione. La sfera emanava un calore fortissimo ed era diventato quasi impossibile per lui continuare a sostenerla.
Un altro incubo raggiunse il guardiano e lo ferì ad un braccio con la sua zampa viscida. Il Guardiano gemette e Dillon smise per un attimo di parlare. In quell'istante gli Incubi si gettarono sul Guardiano, come se una rete invisibile che prima li tratteneva si fosse di colpo spezzata. Dillon riprese immediatamente a cantilenare e il Guardiano li rigettò indietro con un violento colpo dello scettro. I mostri tuttavia gli erano ancora addosso e lo graffiavano, lo tiravano verso di loro e lo colpivano senza sosta.
Dillon era al limite delle forze e non sapeva più quali parole utilizzare. Sentiva la voce svanire e la speranza di scacciare gli Incubi affievolirsi sempre di più. Si chiese che cosa fosse accaduto a quella bambina per avere sogni così brutti. Ma in quel momento non era importante. Doveva tenere duro.
I mostri accerchiarono il Guardiano che perse la presa dello scettro e lentamente si fece sopraffare dai tentacoli e dalle spire. L'ombra era arrivata sino al letto e persino le Fate faticavano a resistere. Una di loro venne risucchiata dal buio, poi un'altra ed infine una terza. Julie si era rifugiata alle spalle di Dillon e miagolava dalla paura. Non le era mai capitato di essere così vicina alla sconfitta. Se gli Incubi avessero avuto la meglio sia lei che Dillon non sarebbero mai più stati in grado di tornare a casa.
Poi, ad un tratto, Sara sorrise.
Una vampata di luce scaturì dal suo volto e l'ombra si estinse di colpo.
Dillon riprese a cantare con forza e il Guardiano spalancò la bocca riprendendo possesso dello scettro. I mostri indietreggiarono sbigottiti. Quando si resero conto che stavano per essere sconfitti tentarono di fuggire ma per molti di loro era troppo tardi. Il Guardiano li aveva già catturati quasi tutti e li stava lentamente trascinando all'interno della sfera. Il piccolo globo trasparente si stava riempiendo di una intensa luce bianca, come se una stella vi avesse preso dimora. Gli Incubi cercarono di divincolarsi dalla presa del Guardiano ma oramai le sua mani erano forti ed enormi e non lasciavano scampo. Solo alcuni lievi brutti ricordi riuscirono a sottrarsi alla magia e svanirono nella notte come nebbia.
In poco tempo dei mostri non rimase più traccia.
Dillon richiamò il guardiano che si ritirò stremato. A quel punto aprì gli occhi e vide la sfera luminosa che pulsava e vibrava intensamente di fronte a lui. Stando attendo a non scottarsi la fece oscillare verso la borsa e la ripose al suo interno, assieme alle altre sfere.
Julie scese da letto e con un miagolio dolce congedò le Fate. Queste si esibirono in un  ultimo volteggio leggero, poi uscirono in fila in cerca dell'aria fresca.
Dillon si sgranchì la schiena e si alzò in piedi. Si chinò per accarezzare Julie poi afferrò la borsa, accorgendosi di quanto fosse pesante.
Sara respirava adagio, stringendo l'orsacchiotto sgualcito. Sorrideva ancora.
"Andiamo a casa?" chiese Dillon.
Julie miagolò appena mentre camminava adagio verso la finestra.

[Questo racconto è ispirato al disegno "The Dreamcatcher" di juliedillon | http://browse.deviantart.com/art/The-Dreamcatcher-39532506]

giovedì 2 maggio 2013



Dreamcatcher

Prima Parte

La mappa abbozzata sul foglietto giallo indicava proprio quella finestra. Dillon accartocciò il pezzo di carta e lo infilò con cura nella tasca dei calzoni, sentendolo scivolare lungo la coscia. Al suo fianco Julie strisciava la coda sulla sacca di cuoio, strabordante di sfere luminose. Era impaziente di tornare a casa. La notte stava finendo e lei sapeva che quella era l’ultima visita.
Dillon spinse adagio la finestra, che era aperta come da istruzioni, e sorrise compiaciuto. Non sempre la lasciano aperta, anche se viene detto loro, e quando accade vi è sempre il rischio di svegliare chi dorme nella stanza.
Il tappeto che ricopriva il pavimento di legno era soffice e caldo. Dillon ne apprezzò la morbidezza sotto i piedi nudi e pensò che anche Julie doveva provare la stessa sensazione.
La stanza era ordinata e accogliente. Pupazzi e giochi erano adagiati con cura su sedie e mensole o su qualche cassa colorata. I libri risposavano nella piccola libreria accanto al letto. La porta era chiusa, come da istruzioni. Nel letto accanto alla porta Sara dormiva stringendo un orsetto sgualcito.
Dillon si guardò attorno osservando le pareti e il soffitto per capire da dove sarebbero arrivati. La parete dietro il letto era rivestita di assi e quella accanto era stata saggiamente dipinta di celeste, colore che notoriamente li tiene lontani.
“Arriveranno da lì” disse Dillon a bassa voce, indicando la parete opposta a quella celeste. Julie miagolò, per segnalare che era d’accordo.
Dillon si sedette ai piedi del letto, appoggiando la borsa sul tappeto rosso e Julie vi si accovacciò accanto, osservando un punto a mezz’aria dove ancora non vi era nulla.
“Li senti già?” le chiese Dillon.
Julie non emise alcun suono ma tese il corpo, e ciò era segno che erano molto vicini.
Dillon infilò una mano nella sacca ed estrasse una piccola sfera trasparente e vuota. L’appoggiò sulla coperta e si tirò sul capo il cappuccio della casacca marrone, ricamato con piccole stelle dorate. Chiuse gli occhi e prese la sfera tra le mani, in attesa che fosse il momento.

giovedì 25 aprile 2013



Cancello
Etimologia della parola

In zoologia incrocio tra un canide e uno strumento a corde quale il violoncello. Questo animale, secondo la tradizione popolare "il miglior amico dei direttori d'orchestra", viene spesso utilizzato dall'uomo per guidare le greggi o sorvegliare le abitazioni. In entrambi i casi svolge il proprio compito emettendo un suono basso e ruvido come lo strisciare di un archetto su grosse corde tese. In altri casi funge da vera e propria chiusura mobile per passaggi di varia entità, montato su cardini o perni anche elettrici.
Quando raggiunge ampie dimensioni è più noto come Gran Cancello, ma questo esemplare si trova quasi esclusivamente nell'Asia Orientale ed è in ogni caso in via di estinzione. Più diffuso anche in occidente è invece l'esemplare più piccolo, detto "Cancellino", che viene utilizzato per pulire le lavagne, grazie alla sua pelliccia spesso molto folta, oppure per delimitare piccoli cortili.

giovedì 18 aprile 2013


Catarsi

Evidentemente aveva un gran bisogno di ridere. Non che il film fosse drammatico, ma di certo non era comico, magari a tratti ironico, un po' surreale a volte, ma non da ridere.
Eppure la signora seduta due file dietro di noi si sbellicava a cadenza regolare, ogni cinque o sei minuti, su scene o battute che tutt'al più potevano generare un sorriso. Invece lei esplodeva in una risata grassa e fuori luogo che copriva parte dei dialoghi e traviava l'atmosfera del film, a suo modo anche drammatico. Fastidiosa. Prima un po', poi decisamente fastidiosa.
All'intervallo mi alzo e con noncuranza scruto la platea alle mie spalle per capire chi sia. Sbircio anche le occhiate e i gesti che si scambiano i nostri vicini, che probabilmente stanno commentando la stessa cosa, ma non riesco ad individuarla. Potrebbe essere la signora con i capelli rossi arruffati o quella vestita bene con la collana di perle che ora non parla perciò non riesco ad associarla ad un timbro di voce (anche se la risata era talmente esagerata che probabilmente non c'entra nulla con il timbro normale).
Il film ricomincia e mi siedo, sperando si sia sfogata. E invece prosegue, più divertita di prima. Attorno a noi sento rumoreggiare la gente che si lamenta ma nessuno ha il coraggio di dirle nulla. Se parlasse col vicino lo farei io, ma ad una risata cosa vuoi dire? Non la puoi mica controllare. O meglio, puoi ma sarebbe un po' crudele chiederle di non ridere. Mi viene in mente che una mia cara amica, che non vedo da un po', ha la stessa potente risata e una volta al cinema con lei ricordo che mi vergognai, poi mi passò ed iniziai a ridere sguaiato anche io. Decido quindi di mettermi nei suoi panni e provo a farmi coinvolgere. Piano piano la gente inizia a ridere della sua risata e il film prende una piega comica che forse non ha. Chissà come sarebbe rivederlo in silenzio. Uscendo dalla sala ci guardiamo attorno, cercando per lo meno di individuarla. Scendendo le scale forse capiamo chi è perché ride con il marito e la risata assomiglia, anche se non ne siamo sicuri. Ci guardiamo anche noi e sorridiamo. In fondo ci siamo divertiti.

giovedì 11 aprile 2013



Cosa trovò Leo quando entrò nella grotta che aveva scovato al centro di un bosco da secoli imperturbato e che egli aveva osato sfrondare alla ricerca della spada magica che gli avrebbe permesso di sconfiggere lo stregone che da anni tiranneggiava sulla contea dove viveva e che aveva provato a ribellarsi ma era riuscita solamente a far infuriare ancora di più lo stregone che per questo aveva punito il popolo con una maledizione che li aveva resi muti e sordi e dunque costretti a usare gesti e immagini per comunicare e per continuare una vita normale e in segreto preparare la fuga di Leo, unico in grado di portare a termine la missione grazie alla sua intelligenza e alla furbizia, poiché queste erano le sue doti, non aveva certo la possanza dalla sua, che gli avrebbero permesso di rintracciare l'arma preziosa e tornare in segreto per sfidare lo stregone il quale secondo la leggenda nulla avrebbe potuto contro quella lama, forgiata con le lacrime del fratello che egli esiliò dal regno molti secoli prima e che su di lui giurò vendetta che tuttavia non poté mai compiere poiché morì di vecchiaia mentre il fratello sopravviveva ai decenni grazie alle sue pozioni e agli incantamenti, i quali lo avevo reso sapiente ma spietato, dotto ma terribile e sanguinario tanto che ogni uomo o donna o bambino si augurava la sua sconfitta per poter tornare finalmente ad una vita libera?

Niente.

venerdì 5 aprile 2013


Cappotto

Avevo comprato un cappotto usato in un negozio di Roma, vicino al Pantheon, nel quale andavo spesso. Mi ricordava tanto un cappotto che avevo una volta ma che non ricordo come avevo smarrito, o forse lo avevo dato via perché non lo mettevo più. Ero molto contento del mio acquisto e tornai a casa di buon umore quel giorno.
Nei mesi successivi tuttavia misi poco quel cappotto. Non so, non mi piaceva più come quando lo avevo comprato, non mi ci vedevo più. Ogni tanto lo vedevo lì appeso, mi obbligavo quasi a indossarlo, ma poi rinunciavo, sentendomi in colpa.
Qualche rara volta lo mettevo, per andare a qualche festa a tema, ma mi sentivo sempre a disagio. Dopo qualche tempo notai che addirittura mi ammalavo ogni volta che lo indossavo, e io non mi ammalo spesso. Un raffreddore, la febbre, una lieve polmonite, una o due volte all'anno mi capitava qualcosa e succedeva sempre quando indossavo quel cappotto!
Un giorno, dopo averlo ritirato dalla lavanderia, mi accorsi che aveva una taschina nascosta nella fodera, all'altezza del cuore. Infilai due dita dentro il taglio, ci passavano appena quelle, e trovai un pezzetto di cartone umidiccio con scritto sopra un indirizzo, quasi illeggibile. Lessi l'indirizzo alcune volte poi gettai il cartoncino e non ci pensai più.
Dopo qualche tempo, forse un anno, mi trovai a passare per un quartiere nel quale non andavo mai e quando trovai la via che stavo cercando mi tornò in mente che era la stessa segnata su quel cartoncino. Tornando a casa decisi di allungare un po' il giro per passare di fronte a quell'indirizzo e vidi che si trattava di una macelleria. Senza sapere bene perché decisi di parcheggiare ed entrare. C'era una signora che stava pagando alla cassa e uscì poco dopo. Il macellaio, un signore sulla sessantina, mi sorrise, chiedendomi cosa volessi. Io non volevo nulla e allora lui mi chiese se mi servivano indicazioni. Dissi di no e gli spiegai che avevo trovato l'indirizzo di quel luogo in un vecchio cappotto e che siccome ero da quelle parti avevo deciso di fermarmi un momento.
Quando nominai il cappotto il macellaio, fino a quel momento gioviale, si fece di colpo serio e si affrettò a salutarmi, augurandomi buona giornata. Perplesso tornai a casa e per un po' dimenticai quell'episodio.
Tornato da quelle parti qualche settimana dopo per una commissione notai che la macelleria aveva chiuso e al suo posto c'era un minimarket pakistano. Dispiaciuto decisi di proseguire e mi allontanai, avvilito.
Il cappotto rimase a lungo nell'armadio, fino a quando non lo vide un amico che mi era venuto a trovare e che non vedevo da tanto tempo. A lui stava proprio bene e decisi di regalarglielo, anche se non stetti a raccontargli la strana sensazione che mi dava. Pensavo che fosse solo una mia impressione e non volevo turbarlo.
Circa tre mesi dopo chiesi a quel mio amico del cappotto e mi disse che non lo indossava mai, che da quando glielo avevo dato si era rotto una caviglia, aveva perso il lavoro e la sua ragazza lo aveva lasciato. Gli chiesi se avesse dato via il cappotto e mi disse che lo aveva infilato un uno di quei bidoni per la raccolta di abiti usati.
Cinque anni più tardi tornai nel negozio vicino al Pantheon, nel quale non mettevo piede da tempo. Giravo tra le pile di vestiti senza divertirmi a frugare in cerca di qualcosa di carina come un tempo. Ero turbato dall'inquietante timore di ritrovare quel cappotto appeso da qualche parte. Dopo una ventina di minuti mi rasserenai e trovai un paio di magliette carine, le provai e decisi di comprarle. Andai alla cassa, di nuovo di buon umore, e sorrisi alla cassiera. Pagai e mi diressi verso la porta. In quel momento mi accorsi di aver lasciato gli occhiali da sole in camerino e tornai indietro, sperando che fossero ancora lì. Il camerino era occupato e attesi. Poco dopo uscì un ragazzo sulla trentina, con dei folti baffi e i capelli lunghi, il quale mi fece un cenno col capo per farmi capire che potevo entrare. Gli occhiali erano ancora lì. Li presi e tornai verso l'uscita. Il ragazzo di prima era alla cassa e stava digitando il codice del bancomat mentre la cassiera infilava il suo acquisto in una grande busta di carta rossa.
No, non stava comprando il cappotto.
Ma quel cappotto lo vidi in una foto sul giornale accanto ad un articolo sui senzatetto. Un barbone morto dal freddo lo indossava, steso a terra accanto all'ambulanza.


giovedì 28 marzo 2013


Mattino
Etimologia della parola

Personaggio sociopatico e con una visione bizzarra del mondo che lo circonda, solitamente isolato dalla società. Non è mai di statura superiore al metro e cinquanta ed è possibile vederlo solamente tra l'alba e il mezzogiorno. Date le poche ore di operatività concessegli è sempre molto indaffarato, svolge più attività contemporaneamente e non smette mai di parlare, accavallando spesso i discorsi e ne lascia molti in sospeso. Negli Stati Uniti vive in comunità controllate ma negli altri continenti di solito vive libero e dunque non è possibile quantificarne il numero, nemmeno approssimativamente. In alcune nazioni dell'Africa subsahariana e dell'Oceania occupa ruoli di prestigio all'interno della società e viene consultato come un saggio o un oracolo.

giovedì 21 marzo 2013


Barbiere


Un paio d'anni fa scrissi un racconto ispirato ad un barbiere della mia città, un signore molisano gioviale e molto gentile, tradizionale e uno degli ultimi a prezzi onesti. Quando ebbi la certezza che il racconto sarebbe entrato a far parte di un romanzo collettivo andai da quel barbiere, che mi conosceva solo di vista, mentre io di lui sapevo molto, per portargli una copia del racconto. Trovai il negozio chiuso per malattia. Tornai dopo una settimana e vidi la serranda mezza abbassata. Sbirciando dentro scorsi una ragazza. Mi aprì spiegandomi che era passata a dare l'acqua alle piante perché il negozio sarebbe rimasto chiuso per un po' dato che suo padre non stava tanto bene. Spiegai alla ragazza il motivo della mia visita e le lasciai una copia del racconto, dicendole che il protagonista era ispirato a suo padre. Lei lo prese e mi fece entrare, con un sorriso commosso. Mi spiegò che il padre aveva iniziato ad avere problemi di memoria, faticava a fare i conti ed aveva scoperto di avere un tumore al cervello. Forse sarebbe tornato, ma prima doveva operarsi. Le dissi che dopo qualche settimana avremmo presentato il libro e ci scambiammo i numeri. Mi promise che sarebbe stata presente alla serata.
In effetti venne, con il marito, i figli e la madre ma suo padre non se la sentiva di uscire. Quella sera non ebbi modo di leggere il racconto del barbiere ma loro furono molto contenti ugualmente e mi ringraziarono. Mi ripromisi di leggerlo alla presentazione successiva, che avremmo fatto sempre in città qualche tempo dopo, così forse il padre sarebbe venuto.
Alla seconda presentazione la famiglia del barbiere non venne, come molti altri, poiché nevicò come non accadeva da decenni e in platea c'era appena una dozzina di amici. Qualche settimana dopo tornai al negozio e trovai il barbiere con la figlia. Lei gli spiegò chi fossi e lui sorrise, facendo un cenno con la mano. Conoscendo la sua parlantina, vederlo così silenzioso mi dispiacque molto. Nelle settimane successive il negozio rimase chiuso e i cartelli scritti a mano che si alternavano sulla serranda procrastinavano sempre di più il ritorno del barbiere. Ad ogni acquazzone venivano riscritti ed ogni volta la famiglia ringraziava gli amici e i clienti che si erano interessati alla salute del barbiere.
Qualche mese più tardi il negozio venne messo in vendita.
Dopo circa un anno andammo a cena in un ristorante del centro che aveva cambiato gestione da poco. Saremmo andati in bicicletta ma era freddo e minacciava pioggia. Prendemmo la macchina sperando in un parcheggio vicino. Ci rassegnammo a dirigerci verso la piazza quando vidi all'improvviso un posto vuoto tra una macchina e un paletto. C'era poco spazio ma riuscii con un paio di manovre a mettermi dentro le righe. Non avrei mai sperato di trovare posto in quella via e così vicino al ristorante. Appena scesi dalla macchina buttammo l'occhio ai manifesti degli spettacoli, accanto ai quali vi erano alcuni annunci funebri. Il primo in basso a destra era quello del barbiere, ed era di qualche  giorno prima. Ho scritto subito un messaggio alla figlia, dicendole che avevo saputo in ritardo e che mi dispiaceva. Suo padre avrebbe lasciato certamente un bel ricordo in tutti noi.

giovedì 14 marzo 2013


Treno


C'è una coppia di ventenni, lui di Vico Equense, lei di Bondeno, che si prendono in giro sui rispettivi accenti. Sono innamorati e stanno andando a conoscere i genitori di lei. C'è un cileno basso e piazzato con i capelli lunghi, nerissimi, raccolti da un elastico rosso. Ascolta negli auricolari musica sudamericana solo strumentale, che a me pare tutta uguale, ad un volume assurdo e muove ritmicamente la testa e il piede, inguainato in una scarpa da ginnastica nera e lucida. Guarda dal finestrino la nebbia fitta, come per sfondarla, ma non la vede, assordato com'è. C'è un signore sgangherato che ha sbagliato treno. Ma non se ne preoccupa, scenderà tra un paio di fermate. C'è una ragazza che è partita senza avvisare i suoi amici che dovrebbero venirla a prendere alla stazione. Allora chiama suo padre, che chiamerà il suo ragazzo, che chiamerà i suoi amici, sperando che siano liberi. C'è una signora senegalese agghindatissima, con collane, braccialetti e vestiti colorati. Canticchia sottovoce e il suono si confonde con il rullio del motore. C'è il controllore dall'accento riminese che non chiede il biglietto ma saluta tutti e ad ogni fermata fischia nell'oscurità, risvegliando i paesini assopiti.

giovedì 28 febbraio 2013


Amici


Devo sostituire, per un paio d'opre, un allenatore di pallacanestro con dei ragazzini di dodici anni. Torno dopo tanto tempo dove mi allenavo anch'io, alla loro età. La palestra è piccola, ci sta appena un piede tra il bordo del campo e il muro e la vecchia area del tiro da tre non arriva fino a fondo campo. Il pavimento è lo stesso linoleum verde di dieci anni prima.
I ragazzi sono tanti ma abbastanza disciplinati. Tra di loro c'è anche un ragazzo down, che tutti chiamano Bengi. Bengi è bravo. Passa la palla, corre, fa qualche fallo ma solo perché è un po' scomposto. Gli altri lo sanno e non se la prendono e cercano di coinvolgerlo nel gioco il più possibile.
Facciamo un po' di riscaldamento, poi qualche esercizio e infine una partitella.
Ad un tratto Bengi va in bagno ma non torna. Allora lascio i ragazzi a giocare ed entro negli spogliatoi. Apro la porta delle docce e vedo Bengi che si è tolto i pantaloni e sta roteando in aria le mutande piene di cacca.
Chiudo la porta e torno in palestra. Fischio e chiamo a me i ragazzi. Prendo Filippo e Marta, che mi sembrano i più svegli ed autorevoli, e li incarico di fare da giocatori e arbitri perché Bengi ha bisogno di me. Loro annuiscono, non deve essere la prima volta che accade, prendono la palla e fanno giocare i loro compagni.
Torno in bagno e la situazione non è cambiata. In più però Bengi sta gridando: "Seeeeee!".
Riesco a placarlo poi lo riporto in bagno e lo lavo. Trovato il suo zainetto lo asciugo con un asciugamano che per fortuna ha dietro. Però non ha un cambio. Gli metto i miei pantaloncini e io rimango con la tuta. Prendo le sue mutande e i pantaloncini imbrattati e li incarto come posso in un sacchetto di plastica che trovo nella cesta dei palloni. Metto il sacchetto in bagno in attesa che arrivino a prenderlo. Intanto i ragazzi in palestra finiscono la partita mentre Bengi li osserva dalla panchina.
Alla fine delle due ore arrivano i genitori di Bengi ai quali racconto sorridendo l'accaduto. Loro lo rimproverano un po' ma alla fine non lo sgridano troppo. Prima di andare via Bengi mi abbraccia e mi dice: "Amici...".

giovedì 21 febbraio 2013


Renon (2)
Canederli


Decidiamo di andare a cena nel paesino più basso dell'altopiano, arrampicato attorno e sopra la piazza della chiesa, in mezzo ai filari di vite belli carichi. C'è una sagra, sei o sette stand appena, e la banda di Vanga, composta da soli uomini in abiti tipici tirolesi, che probabilmente raccoglie tutti gli esemplari maschi del paesino, che scopriamo contare due centinaia di abitanti, e qui saranno cinquanta.
Arriviamo presto e compriamo qualche formaggio e dello speck pregissimo di malga. In realtà non siamo qui a caso. Sappiamo che gli stand sono gestiti da alcuni dei più rinomati ristoranti del luogo che per l'occasione preparano pietanze più semplici su piatti di carta o vaschette di plastica, per promuoversi. In pratica si mangia benissimo, spendendo poco, in un clima tranquillo da festa di paese altoatesino.
E' tutto ottimo. Il risotto, i canederli di formaggio, le crepes, il gelato con le fragole. Ma poi arriva la bomba.
Sulla colonna di uno stand di legno scuro, il più grande e rifinito di tutti, è appesa una lavagnetta che recita: canederli dolci, due euro l'uno. Li proviamo.
Dei canederli in realtà hanno solo la forma e apparentemente la consistenza, ma dentro è tutto diverso. La forchettina di legno spacca la pastella fragrante, e ne fuoriesce, lento e denso, il ripieno di ricotta. Il primo boccone è nel complesso dolce e tiepido. Intanto si fa largo il cuore caldo di albicocca. Il secondo boccone è divino. Con molta, molta calma li finisco. Ce ne starebbero altri due, ma l'apoteosi deve fermarsi qui.

giovedì 14 febbraio 2013


Grondaie

Davidino parla con le grondaie. E i lampioni, i tubi, gli spigoli dei palazzi. Lo puoi vedere quasi tutte le mattine in Piazza della Libertà, ben vestito, con cappotto firmato, coppola e sciarpa rossa. Si ferma a metà della piazza, di fronte alla banca, ed inizia a chiacchierare con la grondaia della Prefettura. Le porge domande, ride alla risposte, si arrabbia quando non è d'accordo. Poi saluta la grondaia dicendole: "Sei forte te!" e prosegue, sguardo basso, verso una meta che solo lui conosce. Ad un tratto si ferma di fronte ad un lampione in ghisa, alza la testa come se avesse rivisto un vecchio amico, lo saluta a voce alta, ride sguaiatamente poi inizia una nuova conversazione accorata e serissima. "Sei forte te!" e se ne va, voltando l'angolo. Se lo segui per un po' ti accorgi che impiega ore per attraversare il solo centro storico. A volte torna indietro, a volte passa oltre alcuni vecchi amici senza nemmeno considerarli. Non lo fermano la pioggia, il vento, le manifestazioni. Al termine della mattinata si dilegua, mentre i negozi chiudono per il pranzo. Al pomeriggio non lo vedi quasi mai. Ma sai che il mattino seguente ritornerà.
Sembra una canzone di Guccini.

giovedì 7 febbraio 2013


Storione
Etimologia della parola

Pesce cantastorie d'acqua salata o più raramente dolce. Molto apprezzato dai suoi simili, soprattutto dai cetacei, in quanto ha sempre pronta una storia incredibile da raccontare. Molto spesso è egli stesso il protagonisti di tali storie, e altrettanto di sovente esagera nel raccontarle, e per questo viene amabilmente canzonato. Come quella in cui una volta è stato pescato da un uomo di tre metri. O l'altra in cui è stato fuori dall'acqua per due giorni. Esiste pertanto un modo di dire che lo riguarda, oramai diffuso dall'Adriatico al Mar Giallo. "Sei uno storione" o "Non fare lo storione" o, almeno in Romagna, "Fat sturiò'!" oppure "L'è propi un sturiò!". Al di là dell'ironia, lo storione è tuttavia conteso ai ricevimenti e invitato alle manifestazioni importanti poiché intrattiene i commensali e il pubblico come nessun'altra creatura acquatica. Cogliamo dunque l'occasione, nel descrivere questo lemma, per sensibilizzare l'uditorio alla critica situazione degli storioni, minacciati di estinzione dall'avvento di aggeggi elettronici che permettono di avere storie sempre a portata di mano o addirittura già lette da altri per voi. Le storie, per quanto possano essere gonfiate, fatevele raccontare dal vivo, che è meglio.

giovedì 31 gennaio 2013


Invece

Te ne stai seduta lì, al margine della piazzetta, appena al di là degli ultimi tavolini, ma in vista. C'è una panca di legno che sbuca dal muretto ma tu stai seduta sul muretto, a gambe incrociate, il portatile sulle ginocchia. Ti accendi una sigaretta e getti uno sguardo alla piccola folla che chiacchiera e beve di fronte e dentro al bar. Tu li hai visti, loro ti hanno vista, ma stai in disparte per darti un tono. Forse non avevi nemmeno voglia di fumare, ma lo fai. In realtà non avevi nemmeno bisogno di aprire il portatile, ma penseranno chissà perché esce di casa per poi isolarsi dietro a uno schermo, e questo ti dà un aria di mistero e anche un po' antipatica. Ma del resto non vuoi piacere per forza. Saluti con un cenno alcune persone con le quali vorresti parlare e ridere, ma sei in un momento intimista depressivo autolesionista nel quale vuoi restare ancora per un po'. Passi svogliata il dito sulla tastiera. Ogni tanto sollevi lo sguardo per vedere se qualcuno ti guarda e per ribadire che tu là in mezzo non ci vuoi andare, che in quel luogo non sei a tuo agio. Rimani al margine, dove stanno i segreti. Hai freddo, ma indossi una maglietta scollata, dei pantaloncini molto corti e una pashmina scura. Sempre perché. Finita la sigaretta ti alzi e sgusci fino al banco, ordini una birra piccola e saluti il barista con un cenno del capo, poi riprendi il tuo posto, fissando le crepe sul ciottolato avorio. Un ragazzo si avvicina e ti saluta, rovinando il quadretto che avevi impiegato una buona mezz'ora a creare. Lo tratti quasi male e lui se ne va presto, lasciandoti di nuovo sola. Finisci la birra, riprendi il computer e te ne vai dal vicoletto, anche se in realtà così allunghi il giro, ma attraversare la piazzetta proprio non è da te.

giovedì 24 gennaio 2013

Contro-storia

In realtà non c'è mai stata nessuna guerra. Non sei mai partito ventiduenne dal tuo paese per andare a combattere al fronte. Non hai viaggiato stipato in un treno assieme a degli sconosciuti, non hai mai avuto sete e fame, non hai avuto freddo. Non hai sparato invano contro un nemico senza volto, non sei stato preso prigioniero. Non hai mangiato bucce di patate, non hai rosicchiato ossa rancide. Non hai tenuto un diario su dei fogli rubati e segnati con un lapis di carbone, non hai cercato la luce del giorno tra le assi umide della parete. Non hai pianto, non hai scavato, non hai visto morire i tuoi compagni. Non ti sei consumato, non hai perso la speranza. Non hai atteso in vano. In realtà non sei morto. In realtà non sei mai nato.

giovedì 17 gennaio 2013


No golf

Abitavo al n.87 di Craiglockhart Terrace, nella periferia ovest di Edimburgo. Vivevo con due ragazze australiane, una coppia spagnola, un'altra ragazza spagnola, un quarantenne scozzese quasi alcolista e un ragazzo pallidissimo e sempre vestito di nero, del quale non seppi mai nulla e che tutti chiamavamo “Il fantasma”. All'inizio non avevo ancora molta confidenza e siccome ero nettamente l'inquilino più giovane, me ne stavo spesso da solo e mi inventavo cose da fare.
Lungo la strada per tornare a casa con il bus diretto a Torphin passavo sempre accanto ai Brunsfield Links, un piccolo prato nel cuore della città con 18 brevi buche da golf. Al limitare del campo c'era una casetta di legno dipinta di rosso scuro con appese le regole del campo e una piccola mappa delle buche. Ognuno poteva giocare liberamente, purché rispettasse le regole e ovviamente si portasse le proprie mazze e le proprie palline.
Dopo circa due settimane che ero lì, dato che faceva bel tempo, decisi di entrare in un charity shop a caso, e per tre pounds comprai due mazze, un ferro medio e un putter, e due palline.
Andai al campo da golf ed iniziai a tirare le palline. Non avendo mai giocato ero molto scarso, però mi divertivo abbastanza. Alla quinta buca iniziò a piovere di brutto e fui costretto a interrompere la mia prima solitaria di golf. Forse era un segno, forse mi si stava dicendo che non ero ancora pronto per il gioco, nemmeno per i Links.
Nei giorni seguenti decisi quindi di allenarmi e siccome proprio di fronte a casa c'era un'enorme prato ben curato, mi misi a tirare palline, per ore ed ore. Passai così alcuni pomeriggi fino a quando non mi sentii pronto per tornare ai Links.
Ad un tratto, quando avevo deciso di fare gli ultimi tiri (oramai riuscivo a lanciare con precisione oltre i trenta metri) vedo un ragazzo ben piazzato tutto vestito di bianco, con i guantini e la coppola che mi corre incontro dall'altra parte del prato, saranno stati trecento metri, agitando le braccia e urlando qualcosa. Io non capisco e piazzo un altro lancio. Vado a recuperare la pallina e quando torno indietro l'uomo mi ha quasi raggiunto. Ora capisco cosa mi sta urlando: “No golf! No golf!”. Quando vede che ho finalmente sentito si ferma e mi guarda, ma è ancora a un centinaio di metri. Io che non capisco perché non posso lanciare gli urlo “Tell me why?!” e lui, con grandissimo garbo mi urla “It's a cricket pitch!”
Con riluttanza alzo una mano, in segno di scusa, raccolgo le mie palline, recupero anche l'altra mazza e torno verso casa.
Ero contrariato. Per quasi una settimana mi ero allenato e nessuno si era mai presentato a giocare a cricket. Ero sempre rimasto nel bordo del campo, vicino alle case, e da lì nemmeno si vedevano le linee bianche dei campi da quanto ero lontano.
Più tardi scoprii che stavo lentamente dissodando i Craiglockhart pitches, i campi di riserva del Watsonians Cricket Club, che si trovava dall'altra parte della ferrovia. Quella sera riposi le mazze, deciso a trovare un altro prato nel quale allenarmi.
Il mattino seguente vicino alle case dove di solito mi esercitavo campeggiava un cartello con scritto “No golf”.
Vi passai oltre, sbirciando dentro le finestre per vedere se qualcuno mi stesse osservando, se qualcuno mi avesse riconosciuto. Quel cartello era lì per colpa mia.
Non ripresi più in mano le mazze. Non tornai mai più ai Brunsfield Links. Ma ogni giorno li vedevo scorrere accanto al bus n. 10 e ogni giorno mi ricordavo della piantina del parco che avevo piegato e riposto nel cassetto della scrivania. E credo che sia ancora lì.

giovedì 10 gennaio 2013


Arturo Provvisorio

Ciao come ti chiami?”
Arturo. Provvisorio...”
Capisco. Io Marcella, definitivo.”
Beata te...”

Arturo una volta si chiamava Deserto, perché è li che era nato. Anche suo padre si chiamava Deserto, mentre sua madre si chiamava Oasi. La legge del sultano prevedeva che ognuno avesse il nome del luogo in cui era venuto al mondo. Quando il sultano morì senza eredi e fu possibile cambiare nome, molti non lo fecero, abituati ormai com'erano al proprio, ma Arturo sì.
Dapprima decise di chiamarsi Oasi, poi Savana, poi Foresta. Non contento di avere nomi che anche altri che conosceva avevano, scelse quindi parole di luoghi che aveva visto ma che non esistevano dove viva lui. Pensò a Montagna, poi Mare, poi Neve, poi Città. Stanco dei nomi di luogo si chiese se nessuno fosse mai nato in cielo, ma pensando agli uccelli decise che fosse possibile e allora si chiamò Cielo. Che comunque era un luogo, in qualche modo, e Arturo voleva di più. Passò da Sasso, poi Sedia, Triangolo, Felicità, Ipotesi, ma anche questi nomi riconducevano sempre a qualcosa. Dopo molti mesi e molti nomi Arturo ebbe l'idea di inventarsi un nome, e fu Gnarz. Ma non gli piaceva il suono. Pensò ad altri nomi ma si accorse che scartava tutti quelli che suonavano male e teneva solo quelli belli da pronunciare e anche questo non gli piaceva. Prese così delle lettere a caso e venne fuori Nxnmausdhjc, che però era impronunciabile. Poi finalmente Arturo trovò un nome che gli piaceva ma un imperatore prese il potere e decise che i nomi sarebbe stati assegnati dal suo governo. Il nome affibbiato tuttavia avrebbe avuto un periodo di prova, durante il quale ognuno poteva abituarsi e vedere come gli stava. Dopodiché sarebbe stato possibile fare al massimo due richieste di cambiamento. Arturo era al primo nome, ma ancora non era sicuro che gli piacesse.

E come vorresti chiamarti?” gli chiese Marcella.
Arturo ci pensò un po', ma il realtà conosceva da tempo la risposta.
Deserto.” disse.

giovedì 3 gennaio 2013


Piedi

Jasper Helbow aveva finito di disegnare "Jennar" il protagonista del nuovo cartone animato della Xartax. L'unico problema era che aveva i piedi. Era perfetto: simpatico, accattivante, vestiti perfetti, colori perfetti. Ma non indossava le scarpe. Il che era del tutto concepibile trattandosi di un energumeno quasi primitivo in lotta contro gli orchi della foresta.  Ma la casa di produzione non era intenzionata a spendere tutti quei soldi per avere schiere di disegnatori che "perdessero tempo" sui piedi. Scontornarli, muovere le dita una ad una, ombreggiare l'incarnato. Decisamente troppo tempo e troppo denaro. Meglio le scarpe. Assurde ma molto più economiche. Jasper Helbow si rifiutò di modificare la sua creatura e lasciò l'incarico per il quale aveva già un contratto da due milioni di dollari. E solo per la storia delle scarpe. La Xartax fece comunque il cartone, ma non ebbe il successo sperato.
Helbow decise di farne una sua versione ma non aveva abbastanza soldi. Vendette la casa e tutto quello che poteva vendere. Dopo un paio d'anni di lavoro si ammalò gravemente e morì nel giro di pochi mesi. Suo figlio proseguì l'opera e riuscì a completare il lungometraggio in tre anni grazie alla donazione di una fondazione anonima. Quando venne ultimato, all'inizio degli anni duemila, era già obsoleto, superato in tecnologia dalla computer animation che oramai spadroneggiava da tempo. Ma "Jennar del bosco" ora esiste ed ha i piedi. Ed è un gran bel film.

giovedì 27 dicembre 2012


A.G.

Finale del campionato provinciale di pallacanestro. La solita da anni. Loro sono sempre troppo forti, proprio un altro livello e ci prepariamo a prendere la consueta botta di punti. Il loro capitano è A.G., un bulletto nemmeno troppo alto (che però, bisogna riconoscerglielo, salta come un matto), tutto ingellato e con il codazzo di tipine che lo vengono a vedere. I suoi compagni di squadra lo venerano e lo proteggono e ci minacciano dalla panchina, nell'indifferenza dell'arbitro e dell'allenatore. Come al solito lo marco io.
Dopo il primo tempo stiamo già sotto di venti e le cose non sono destinate a migliorare. Tre dei nostri hanno quattro falli e difendono con la mano leggera per non finire subito fuori. A.G. ha fatto una quindicina di punti, messo a segno tre o quattro stoppate, rubato otto palle e si è guadagnato un fallo tecnico dopo aver spinto sotto canestro il nostro lungo il quale, dato che l'arbitro non fischiava, lo ha spinto per terra. A.G. se la rideva.
Manca poco alla fine, abbiamo finito la panchina per falli, io sono ancora in campo ma ne ho quattro anche io e sto addosso ad A.G. cercando di limitarlo, ma nulla più. Mette a segno una tripla, poi mi infila in entrata con un sottomano comodo comodo. Mi guarda negli occhi da pochi centimetri e ride. Bravo.
Nell'azione seguente la palla ce l'ha ancora lui, è al limite dell'area piccola e vuole entrare. Sento il lungo dei loro che mi si preme addosso e tenta un blocco ma io lo aggiro proprio mentre A.G. parte di destro, dritto per dritto. Io sono un pelo in ritardo ma recupero e cerco di rubargli il pallone mentre sta ancora palleggiando. Ma non ci arrivo. A.G. inizia il terzo tempo. Palla in mano, destro, sinistro, stacco. Si prepara ad appoggiare la palla al tabellone in sottomano, come se li sotto ci fosse solo lui. Allora ci provo.
Mi rendo conto che con la mano destra non ci posso arrivare, farei fallo di sicuro. Allora faccio un terzo tempo da mancino. Sinistro, destro, stacco. Allungo il braccio sinistro, che non è il mio, salto come non mani e gli sono di fianco. Lui mi vede con la coda dell'occhio ma oramai è in aria, ha impostato il movimento e non può fare molto. Io spingo la spalla più in alto che posso, protendo le dita e proprio mentre la palla si stacca dalla sua mano arrivo io a palmo aperto, impatto il pallone con tutta la forza che ho e lo e sparo in tribuna.
Quando atterriamo lui mi guarda, incredulo. Io ansimo e lo fisso.
Quel giorno abbiamo perso di quarantadue punti. Ma io ho stoppato A.G..

giovedì 20 dicembre 2012


Benny

Era l'unico gatto tigrato che io abbia mai visto ad avere la punta della coda bianca. Sembrava un cane. Dormiva con me, si faceva fare di tutto, non graffiava, non era un ruffiano. Ogni giorno gli aprivamo la porta, lui usciva per andare sui tetti e poi rientrava sempre prima di cena. È stato con noi per alcuni anni, poi un giorno è uscito e non è più tornato. Mi dissero che era andato a morire, forse sulle vecchie mura in rovina vicino a casa nostra. Mi dissero che i gatti sentono quando è il momento, come i capi indiani, e se ne vanno per morire in pace e non farsi più trovare. Io lo capivo, ma non mi andava bene.
Per settimane ricevetti le sue cartoline, dalle più belle capitali d'Europa. Roma, Parigi, Londra. Arrivavano alla mia buchetta personale, fatta di cartone, che stava sotto il letto di ferro azzurro. Erano scritte con grafia incerta, ma dicevano che stava bene, che si era sposato e che ci salutava. Chissà come faceva a trovare sempre cartoline di Ravenna...
Poi un giorno decisi di smettere di ricevere cartoline. Arrivò un altro gatto, ma non era come lui. Rimase poco perché non sembrava trovarsi bene.
Da allora non ci furono più gatti e le vecchie mura vennero chiuse perché pericolanti.

giovedì 13 dicembre 2012

Tu non sai chi sono io

Ho montato il video del tuo matrimonio nel buio di uno stanza e non ci conosciamo. Ti ho visto in volto cento volte, con decine di espressioni diverse. Ti ho visto serio in abito scuro, sorridente in camicia, sudato mentre ballavi, compiaciuto nel tagliare la torta.
Attendo di attraversare sul marciapiede e una macchina verde si ferma. Sei tu, che gentilmente mi fai passare. Faccio un cenno di ringraziamento con il capo. Ti vedo, ti riconosco, ti faccio un sorriso come fossimo vecchi amici. Vorrei alzare una mano e salutarti come si fa con un parente, però mi trattengo ma continuo a fissarti. Tu non capisci, ti volti a parlare con tuo figlio, che ti chiama dal sedile posteriore. Te ne vai e non sai chi sono. Solo ora sollevo la mano e la agito per salutare nessuno.

giovedì 6 dicembre 2012


La stanza dei là

C'è una stanza in fondo al corridoio nella quale giacciono manufatti di varia natura. Indumenti, penne, libri, segnalibri, scatole vuote di medicinali, monete, lettere, buste, biglietti da visita, creme, profumi e molto altro. È chiamata la stanza dei là perché è stata pensata perché uno possa aprire la porta, gettare dentro l'oggetto che non sa dove mettere e poi dire (o almeno pensare) in tutta serenità: “Là!”.
È una stanza priva di luminarie o di finestre, enorme, forse addirittura infinita (due spedizioni internazionali e una di norvegesi sono partite per delimitarne i confini ma ancora nessuna ha fatto ritorno) e dal suo interno non proviene alcun rumore. Solo di notte, ma non sempre, pare che qualcuno stia russando, ma in lontananza.
L'unico problema è che la stanza si muove. Può rimanere anche per un mese intero accanto al bagno, poi da un giorno all'altro si piazza vicino allo studio o cambia di posto con la cucina. Ma del resto è il suo bello. Perché sai che potrebbe non essere dove te l'aspettavi, ma sei sicuro che la stanza dei là ci sarà sempre.

giovedì 29 novembre 2012


Non ci si lascia di giorno

Nessuno innaffiava più la felce da diversi giorni e il caldo era opprimente. Marta e Andrea avevano i gomiti appoggiati alla balaustra e guardavano la gente passare, quasi venti metri più sotto.
Mi hai molto deluso, sai Andrea?
Perché ti ho lasciata?
No. – rispose Marta, voltandosi verso di lui - Perché lo hai fatto di giorno. Non pensavo che avessi così poca stima di me.
Andrea deglutì, imbarazzato. La decisione e la fermezza che avevano accompagnato il suo studiatissimo discorso di commiato ora facevano compagnia alle foglie secche della felce, che il vento fresco stava sgretolando e trascinando fuori dal balcone.
Marta tornò alla carica.
Luca avrebbe potuto lasciarmi di giorno, Paolo forse. Ma da te non me lo aspettavo proprio. All’alba, al massimo, avrei capito. Ma non così. Cosa ti costava aspettare il buio? – adesso era veramente furiosa. – Così me ne potevo andare piangendo, senza che nessuno mi vedesse, senza dover pensare al sudore sulla fronte o a schivare le vecchiette in bici. Perché bisogna concentrarsi sul dolore, non lo si può perdere, così, perché poi non torna più!
Ecco, adesso inizia a gesticolare, pensò Andrea.
E pensa tornare a casa con mia madre che mi chiede cosa ho fatto e io che le dico niente, e allora lei si incazza con me e litighiamo e io esco. Sì, esco e dove cazzo vado alle due del pomeriggio? Sara è al lavoro, i negozi sono ancora chiusi, non ho abbastanza fame da annegarmi di dolci…
Ok, ho capito, pensò Andrea.
Evidentemente la sua faccia tradiva questa cosa perché Marta interruppe l’arringa e lo guardò, disgustata.
Ti sei persino rotto di starmi a sentire.
Ha ragione, pensò Andrea, e si vergognò.
Sarai contento adesso. Guarda in che situazione siamo!
Perché? In che situazione siamo?
Adesso devo aprire la porta a vetri, tornare di là, prendere la borsa, mettermi le scarpe… Proprio sul balcone di casa tua dovevi dirmelo? – e sbuffando se ne andò, continuando a farfugliare parole che Andrea non poté assolutamente comprendere.
Decise di non seguirla, per salvare quel po’ di faccia che gli rimaneva. La immaginò recuperare la sua roba, mentre continuava a borbottare. La sentì sbattere la porta e scendere di corsa le scale.
Si affacciò di nuovo dal balcone e la vide inforcare la bicicletta e perdersi tra la folla della piazza. In breve tempo non riuscì più a distinguerla.
Il suo cellulare squillò. Un messaggio. Marta.
Potevi almeno seguirmi, per salvare quel po’ di faccia che ti rimaneva.
L’ombrellino rosso di carta conficcato ai piedi della selce si stacco e schizzò oltre la balaustra. Ma non precipitò, o almeno non subito. Il vento fresco lo sorresse e lo portò in alto. Lo fece roteare un paio di volte, aprire e chiudere. Poi giunse la bonaccia.
Sono uno stupido, pensò Andrea, un imbecille!
La prossima volta la lascerò di notte.